Dignità e legami materni

Qualche amico mi ha convinta a scrivere della mia personale esperienza affinché possa essere di pubblica utilità.
Sicuramente non tutte le situazioni saranno paragonabili a quella che vi descriverò, ma cercherò di estrapolare alcuni consigli e informazioni che possano essere generalizzati anche ad altre situazioni.
Prima però, devo farvi una panoramica di quel che è avvenuto, per amor di completezza.
Premetto che la mia mamma ha dato il consenso a raccontarvi la sua storia.
La mia mamma soffre di un disturbo curabilissimo, ma che se non seguito, può provocare gravissime conseguenze: il disturbo di conversione, per intenderci, ciò che al tempo di Freud veniva definita nevrosi isterica. Non starò qui a raccontarvi nel dettaglio di cosa si tratta, vi basti sapere che si manifesta in modo diverso da persona a persona e nel caso della mia mamma si trattava di movimenti incontrollati che all’inizio coinvolgevano solo parzialmente il corpo (piccoli movimenti della mano sinistra, piccoli movimenti del capo), ma che in seguito si estesero a tutto il corpo (perdita di equilibrio, perdita del controllo motorio e dei movimenti fini come la scrittura o l’apertura/chiusura e la manipolazione di vari oggetti, persino la produzione del linguaggio era compromessa nel caso di mia madre, non riusciva a proferire alcuna parola distinguibile). Le sue funzioni cognitive (per intenderci, l’intelligenza) erano intatte e lo facemmo attestare da una neuropsichiatra.
Tutto questo era associato in qualche modo all’ansia e allo stress: ogni qualvolta che subentravano questi stati d’animo, i movimenti divenivano più evidenti e la ponevano in condizioni di pericolo di vita sia fuori che dentro casa. Dovetti predisporre l’ambiente che la circondava in modo tale che potesse muoversi nel modo più agevole possibile tramite alcune consultazioni con una fisioterapista. Avevamo cominciato ad usare barattoli e bottiglie di plastica per evitare tagli con i cocci di vetro. Avevamo cambiato anche la disposizione di alcuni mobili e nella vasca da bagno avevamo messo una seggiola.
Quando mi resi conto che mamma cominciava ad aggravarsi, ancora non esisteva una diagnosi precisa e decisi di dedicarmi a leggere tutta la sua storia clinica e di consultare nuovi dottori per giungere alla comprensione e magari ad una soluzione del disturbo.
Quello che emerse fu che questa patologia la accompagnava sin dalla più tenera età e giungere alla diagnosi corretta le fu molto difficoltoso perché i sintomi andavano in remissione o ricomparivano quasi senza un’apparente motivazione. Non era visibile alcun indizio organico dai vari esami diagnostici (TAC, RM, etc.), e come spesso accade a chi presenta questa patologia, ci si ostina a non considerare l’opzione più ovvia, cioè che tutto questo abbia un’origine psicologica.
Sin dall’infanzia di mamma erano state fatte svariate diagnosi e neanche una che fosse azzeccata (a 23 anni le fu addirittura diagnosticato un disturbo che scompare in età adolescenziale, mi chiedo questo dottore che avesse per la testa quel giorno lì!), nessuno si era dedicato completamente al processo diagnostico al punto di definire un percorso terapeutico valido o che producesse effetti sul lungo termine. Le erano stati dati ogni volta farmaci dal nome diverso senza nemmeno spiegarle il motivo e l’importanza dell’assumerli e così, non appena il farmaco faceva il suo effetto e tutto andava in remissione, pur essendole stato consigliato di proseguire col farmaco, mamma lo aveva abbandonato perché si sentiva bene, almeno fino a che un evento traumatico non la riportava di nuovo a manifestare scoordinamento motorio. e continuò così per anni, fino a che non iniziò ad aggravarsi e questi movimenti incontrollati divennero persistenti e invalidanti al punto da non permetterle più di avere una propria autonomia nemmeno nelle azioni più semplici come vestirsi o imboccarsi.
Tutto questo comportò anche l’insorgenza di una depressione molto seria legata al sentimento di sentirsi inutile e impotente.
Per stare dietro alla situazione dovetti abbandonare il lavoro e dedicarmi completamente a lei e decidemmo insieme di rifare da capo un processo diagnostico per capire quale fosse la diagnosi più appropriata perché se almeno avessimo saputo di cosa si fosse trattato, avremmo anche saputo se e in che modo intervenire.
Mi ritrovai ad avere a che fare con cose di cui non avevo mai avuto esperienza, termini, pratiche e burocrazia che mi erano sconosciute. Persino di alcuni servizi ignoravo l’esistenza, dovetti rimboccarmi le maniche e apprendere in fretta di cosa potevo disporre e a cosa avevamo diritto o no, mi feci un giro pure su alcuni siti per capire cosa dicesse la legislazione in merito.
Tornammo a fare esami su esami e continue visite, vedemmo decine di medici, tra cui tanti neurologi e un genetista. Per farla breve, il genetista escluse tutti i più ovvi e gravi disturbi del movimento che presupponevano un’origine genetica (come ad esempio la Corea di Huntington), tutti i neurologi, invece, proposero il farmaco, nel nostro caso le benzodiazepine, gli ansiolitici.
Non so se qualcuno di voi abbia mai avuto a che fare con questo genere di farmaci (vi auguro di no), ma se andate anche solo a consultare wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Benzodiazepine) tra le prime righe potrete leggere:

“Le benzodiazepine hanno sostituito in buona parte l’uso dei barbiturici, vista la loro minore quantità di effetti collaterali. Esse, infatti, sono solitamente sicure ed efficaci nei trattamenti a breve termine, mentre più problematico risulta l’uso a lungo termine per lo sviluppo della tolleranza e per il rischio d’instaurazione di una dipendenza fisica e psichica con conseguente sindrome di astinenza”.

Quel che veniva proposto alla mia mamma era un uso a tempo indeterminato di questo genere di farmaci, non tenendo conto degli effetti collaterali e delle conseguenze, non venendo neanche specificata la funzione del farmaco in questione, dando per scontato che mamma l’avrebbe preso senza il minimo dubbio o senza conseguenze.
Ognuno aveva il suo preferito…clonazepam, alprazolam, diazepam e via dicendo, tutti della stessa famiglia degli ansiolitici.
Qualche dottore arrivò pure a negare che l’alprazolam fosse una benzodiazepina, poi mi chiamò ammettendo la sua ignoranza in merito! (http://it.wikipedia.org/wiki/Alprazolam).
Non sono completamente contraria all’uso di questi farmaci, ma ritengo necessario considerare che queste medicine hanno degli effetti collaterali considerevoli.
Come tutti i farmaci hanno effetti collaterali che variano da persona a persona, in mamma erano bene evidenti le limitazioni e il disagio che derivavano da questi. I neurologi glieli avevano prescritti quasi fosse un buon compromesso assumere questi farmaci in rapporto alle limitazioni che invece comportava il disturbo in sé. Peccato che ne andava della vita sociale e della dignità di mamma. Non usciva più, passava le giornate a dormire e si sentiva sempre assonnata e stanca, mangiava poco e ad orari spropositati, si svegliava la notte, quando parlava sembrava ciucca e quando uscivamo lei si sentiva ancora più in ansia poiché percepiva il giudizio e gli occhi di tutti, questo aveva conseguenze anche sull’umore perché la faceva sentire inadeguata e diversa, non più in grado di mantenere concentrazione e stati vigili.
Quando la situazione si aggravò al punto che dovetti coinvolgere, tramite assistente sociale, una parte della famiglia, tutte le sorelle della mamma si mostrarono pienamente fiduciose nei medici e questo fu motivo di discussioni molto accese tra noi: loro continuavano a non porsi alcun interrogativo sulla condotta dei medici contestandomi la mia mancanza di rispetto dell’autorevolezza professionale di un laureato, e io che per via del mio percorso di studi e per il mio facile accesso al web riuscivo a reperire sempre più informazioni avevo capito che qualche dottore si era fatto un bel po’ di “scivoloni”.
Arrivammo al punto che alcune zie si imposero nelle cure materiali, non curanti del desiderio di mamma di tranquillità e di gestione personale dei pochi aspetti della sua vita personale che poteva ancora controllare; le zie si dimenticavano sistematicamente di tutto l’aspetto emotivo e risultavano talvolta parecchio indelicate, finché un giorno fecero ricoverare mamma in neurologia e lì dovetti relazionarmi con un medico che già in passato aveva seguito la mamma.
Presi un foglio di 10 anni prima scritto dal dottore in questione e dopo aver domandato quale diagnosi pensavano avesse la mamma, contestai, forse in modo emotivamente acceso, ma pur sempre rispettoso, il fatto che per la diagnosi che era stata ipotizzata (ipotizzata e mai verificata), l’intervento che fu fatto allora non prevedeva una terapia psicologica e che questo era un fatto grave, visto che l’uso degli psicofarmaci deve essere solo un modo per alleviare i sintomi, ma non curano il disturbo.
Questo invece di comprendere e ridimensionare il mio giustificato sentimento, si alterò e mettendosi sulla difensiva mi accusò di non possedere l’esperienza e tanto meno le informazioni adeguate per affermare tutto ciò, inoltre sfoderò la carta “guardi che io sono il medico, come si permette,  ho 10 avvocati!”. Compresi io per lui di dover moderare e contenere le sue emozioni, ingiustificate e poco professionali (vi pare possibile che sia proprio io, che sono emotivamente coinvolta e quindi posso essere anche arrabbiata o spaventata dal disagio di mia madre, a dover contenere il sentirsi offeso del dottore? Questo si chiama scarsa professionalità e sappiate che non mi sono fatta mancare di farglielo notare…sarà stato infantile da parte mia, ma quando ci vuole, ci vuole!).
Fatto sta che a seguito di questa accesa conversazione, il giorno dopo, arrivarono in reparto psichiatra e neuropsichiatra (quest’ultima aveva già attestato le capacità cognitive di mamma) e cominciammo finalmente una terapia più indicata e meno invasiva, ma anche più rispettosa per mia madre.
Litigi con i medici a parte, nel frattempo dovevo anche occuparmi di un’altra situazione che premeva: mamma era stata messa in aspettativa dal lavoro, e continuavano a rinnovare questo periodo di permanenza a casa, l’obiettivo era farla tornare a lavorare, non essendo sicure che la potessero mettere in prepensionamento e soprattutto perché di questi tempi di crisi, con me precaria, come avremmo fatto? Per reinserirla sul posto di lavoro, con l’assistente sociale, avevamo deciso che andava valutata la percentuale di invalidità civile, così avremmo anche visto se avevamo diritto alla pensione o all’accompagnamento.
Naturalmente anche qui dovetti sfoderare gli artigli…
Avevano valutato mamma totalmente inabile a lavorare in ogni mansione e in ogni luogo (cosa non del tutto vera poiché mamma a casa, con piccole agevolazioni, riusciva a usare un computer portatile), le diedero anche un 100% di disabilità grave sia psichica che fisica, ma non volevano riconoscere a mamma la pensione di invalidità (a loro dire, pur avendomi a carico eravamo ancora alte di reddito…mah) e non vollero nemmeno riconoscerle un accompagnamento, cosa su cui contavo per poter tornare a lavorare e continuare la mia vita con più serenità.
Non convinta del risultato decisi di consultare l’assistente sociale della commissione dell’Ufficio Invalidi, ma prima ancora ero andata al Tribunale dei Diritti del Malato per domandare se era solo una percezione mia o c’era effettivamente qualcosa di poco chiaro.
Al Tribunale dei Diritti del Malato confermarono i miei dubbi in merito alla pratica dell’Ufficio Invalidi e così facemmo ricorso che non venne riconosciuto.
Gli ostacoli non si limitarono alla pessima professionalità (per fortuna non di tutti) e alla mancanza di conoscenze o di scambio di informazioni degli operatori dei servizi, o ancora alle incomprensioni e all’ignoranza da parte della mia famiglia che continuava a darmi addosso additandomi come maleducata e irrispettosa dell’autorevolezza professionale dei signori laureati attorno alla mamma.
Io e mamma eravamo sole, solo io e lei potevamo capire ciò che significava vivere quel disagio, affrontare ogni perdita di equilibrio, ogni sconforto, ogni pianto, ogni mancato riconoscimento del dolore psichico…quando si arriva a dover occuparsi dell’igiene intima della propria madre, in un’età ancora precoce per considerare una persona demente senile, questo scambio di ruoli tra madre e figlia, mi viene difficile spiegarvelo. Mamma arrivò anche al punto che prima del ricovero non riusciva nemmeno a pronunciare frasi comprensibili e non poteva nemmeno scriverle per via dei continui movimenti persistenti, non è facile raccontare quanto può fare male vedere questo malessere, esserci dentro e non trovare comprensione e nemmeno supporto. Poi pensi a quando, non riuscendo a parlare in modo comprensibile, le persone rispondevano con “Eh?”, ecco, a questa mancanza di delicatezza dovevo compensare io, cercando di evitare che mamma cadesse nello sconforto più assoluto; oppure quando talvolta ero io a spazientirmi e a dover subito dopo accorgermi di averle fatto troppo male.
Quando la senti piangere e vuoi consolarla e non trovi parole adeguate e nemmeno risposte ai suoi interrogativi.
“Che cos’ho? Voglio sapere che cos’ho!”
“Scusami, me lo fai tu? So che ti chiedo sempre aiuto, ma lo sai che non riesco” e poi pianti… e ancora scuse “Scusami… – singhiozzi – scusami!”
Si scusava per essersi sbrodolata, per aver macchiato un vestito, il letto, per non riuscire a svolgere un’azione, per qualsiasi cosa. E io le rispondevo: “Tu non hai colpe, non scusarti, sono cose che capitano, succede a tutti di sporcarsi o di non riuscire a fare qualcosa, tutti abbiamo in qualche modo bisogno di aiuto e io sono qui! Ti fermi e fai le cose con calma, se proprio non riesci non abbatterti, chiedi a me.”
Non ho una mamma convenzionale, mi è stato trasmesso un modello genitoriale diverso dalla norma. Mi sono trovata a imparare a fare la madre occupandomi di mia madre.
Mamma ha sempre avuto un carattere molto forte, a ed è sempre stata poco affettuosa, più concentrata su se stessa che sugli altri, così era stata abituata da piccola. Di colpo la vedi perdere sempre più peso per via dei movimenti persistenti, diventa uno “scheletrino”, la sua forza d’animo si smorza e quando la abbracci per sostenerla, quasi hai paura di frantumare quel corpicino esile.
La guardi e quasi temi il peggio, stai male e non puoi farglielo vedere, devi farla sentire protetta, sicura, devi infonderle forza per reagire.
Avevo il compito di farla sentire protetta, di accudirla di tutelarla e di sostenerle l’anima.
Ricordo quando mi inventai un attrezzo con i materiali che avevo per poterle permettere di infilare i bottoni nelle asole. Quanto è stato difficile farle accettare di dover utilizzare questi ausili, non voleva accettare di non riuscire a fare più quelle azioni quotidiane semplici che prima le venivano automatiche.
Ti ritrovi poi a violare la privacy della tua mamma: leggerle le cose, scriverle al posto suo, fare da mediatrice, ma anche l’intimità corporea dovevo violare, manipolando il suo corpo, massaggiandolo, lavandolo, comprese le parti più intime, controllare i lividi e le piaghe conseguenti alle cadute.
Forse Carolyn Ellis riesce ad esprimerlo meglio in questo frammento di “Legami Materni”:

Con una mano lei si tiene saldamente alla barra di supporto che corre lungo il muro del bagno. Io tengo l’altra delicatamente nella mia e le lavo ciascun dito, notando quanto sia liscia la sua pelle e la bellezza delle sue dita sottili. “Le mie dita,” dice, “sono sporche.” Senza parlare, faccio scorrere il mio dito indice, coperto da un asciugamano, sotto ogni unghia, facendo schioccare sistematicamente le dita man mano che procedo. É un buon segno che lei abbia cura di sé. Fino a ora, non si è preoccupata di nulla, nemmeno quando urina nel letto.
Quando spingo il dispenser del sapone, una piccola massa compatta, densa e rosa di sapone liquido che sa di varechina profumata cade nel panno traslucido. Riempio e appesantisco il tessuto bianco con tanti schizzi, sperando di pulire il persistente odore di feci, urina, sudore, sacca della bile, tubi di plastica, olio vecchio per i capelli e i profumi dell’ospedale.
Distende il suo braccio e io lentamente la pulisco dal polso alle spalle, osservando l’intrusività delle ammaccature nere e diffuse che rivelano le iniezioni degli aghi. La sua mano pulita si tiene al mio polso ora che io sgancio l’altra sua mano dal parapetto. Ripeto il processo anche in questa.
“Sto andando di nuovo,” dice, succhiando lentamente attraverso le labbra e i denti chiusi. Le sopracciglia si innalzano come se stesse chiedendo il mio permesso e allo stesso tempo scusandosi. Sono felice che sia seduta alla toilette. Sarà meno disastroso di prima.
“Ok,” rispondo, “forse questa sarà l’ultima volta. Se tutto va bene il lassativo ha fatto effetto.”
Tengo la sua mano e tocco la sua spalla delicatamente mentre si lascia andare. “Mi dispiace per la scorsa notte,” dice, “Ho come l’impressione che accadesse ad ogni ora. Non avresti dovuto fare tutto ciò.”
“Non m’importava,” le dico, ricordando la mia reazione di riflesso, un po’ improvvisata, la prima volta che le sue budella sono esplose nella notte. Solamente la mia determinazione che lei non fosse a conoscenza di quanto l’odore – quel putrido odore chimico – mi infastidisse mi ha trattenuto dall’aggiungere il mio vomito al liquido marrone che versavo nel water per lei. “Sono felice di essere qui per te.”
“Sì, le infermiere non vengono immediatamente”, afferma, “anche con te qui, il letto si è macchiato lo stesso non è vero?”
“Sì ma adesso sappiamo meglio come fare. Dobbiamo mettere la padella sotto di te il più presto possibile. Ti aiuta quando alzi i fianchi.”
“Se qualcuno mi avesse detto che sarei finita per fare questo…”
“… eri solita farlo per me” la interrompo. Ridiamo come due buoni amici che condividono un ricordo.
Stando attenta ai tubi e alle endovene, sbottono e sposto la sua veste sporca. Cerca di aiutarmi. Copro il davanti del suo corpo con un asciugamano, per proteggerla dal freddo. “Sento una sensazione piacevole quando pulisci la mia schiena,” dice, e io continuo a pulire. Quando trema io metto il panno sotto l’acqua calda. Mi chiedo se pulire il resto del suo corpo.
Davanti le lavo la sua pancia, notando le cicatrici sbiadite del parto cesareo di mio fratello – e rabbrividisco al ricordo che adesso è morto – e guardo vicino alle nuove cicatrici per l’intervento alla cistifellea. Il suo stomaco è ansimante, ma quasi piatto ora, non rotondo come prima. La pelle in eccesso è attaccata debolmente. E adesso le sue braccia. Sebbene la sua pelle è secca e si disquama, ammiro le sue braccia sottili, quasi ossute, ma ancora con una forma. Mi sembra che i nostri corpi abbiano la stessa forma. Lunghi, esili e aggraziate braccia, strati di grasso alle estremità dei fianchi e un corto e spesso giro-vita.
Mi avvicino ai suoi seni, ancora grossi e pendenti. Ora arrivano quasi alla cintola e, siccome le sue spalle sono ricurve, si appoggiano alla sua pancia. Come i miei, solamente più in basso.
Ne prendo uno teneramente nella mia mano, allontanandolo con delicatezza dal suo ventre per pulirlo, notando l’eruzione al di sotto. “Vuoi metterci della crema sopra?”
“Oh, sì, è proprio una piaga.” Tiene il suo seno mentre io le massaggio la crema.
Non provando un’emozione particolare osservo da una certa distanza. Il suo corpo è il mio corpo, il mio corpo tra 36 anni. Realizzo che sarà così e lo sentirò così.
Tengo in mano il suo panno insaponato. “Puoi pulirti le tue natiche,” le chiedo, “e in mezzo alle tue gambe?”
“Penso di sì” risponde, prendendo in mano il panno e tenendosi alla barra di supporto pochi pollici sopra la sedia per bilanciare una parte di se stessa. Mentre noto i peli del suo pube, penso che anche i miei saranno sottili e grigi. Mi allontano dandole l’illusione della privacy.
“Sei pronta per tornare a letto?” le chiedo.
“Sì, sono esaurita”.
Allungo entrambe le braccia. La sacca della bile appuntata al vestito rischia di impigliarsi insieme al nostro abbraccio. “Mettila attorno al mio collo”, suggerisce in modo intelligente. “Sarà la mia collana.” Sorrido, apprezzando il suo humour, che ci lega e rende più facile parlare della sacca. Ma che rottura dei confini – la sua bile è al di fuori del suo corpo perché tutti possano vederla, rivelando di più del drenaggio che spunta da dietro la camicia da notte!!
Porgo ancora una volte le mie braccia davanti a me. Quando le afferra ci spingiamo insieme in piedi. Quando lei trasale per i dolori, la abbraccio intorno alla vita facendo in modo che sia salda per il lungo ritorno verso il letto dieci piedi più in là. I tubi che si allungano dal suo petto e dall’addome, la sacca della bile diventata collana – sono tutti correttamente collocati. Trascina i piedi con passi da bambina sostenendosi in tutto alle mie braccia distese. Mi guarda negli occhi nel momento in cui cammino all’indietro per avvertire il mio segnale e capire quando muoversi in avanti e quando svoltare. Siamo legate intimamente. Abbiamo una fiducia totale l’una dell’altra.
Mi prendo cura dei suoi sentimenti genuini, come se fosse mia figlia. L’amore e l’attenzione che scorre tra noi mi fa sentire come se mia madre e io fossimo innamorate. Il contatto emozionale continua nei quattro giorni e notti trascorsi con lei in ospedale. La mia vita è temporaneamente consacrata al suo benessere. Lei lo sa e ne è grata. A sua volta anch’io le sono grata per l’esperienza. Non mi importa che lei dipenda da me. Sono assorbita dai nostri sentimenti, dalle domande apparentemente semplici che però sono le sole che per il momento contano. Ti gira la testa? Sei in pena? Stai bene? Desideri essere messa seduta nel letto? Non puoi mangiarne ancora solo un altro pezzettino? Devi andare in bagno? Avverti aria nella pancia? Hai sete? Ora preferisci dormire? Mentre la aiuto in questi piccoli eventi, non ne metto in discussione il loro significato come accade nella maggior parte delle cose della mia vita.

La carezzi, la guardi negli occhi e cerchi di non commuoverti, sperando che le lacrime non escano, almeno davanti a lei. A volte ti rendi conto anche di come sia irritante e pesante doversi occupare di lei quando vorresti poterti occupare di realizzarti, soprattutto in un momento come quello che viviamo, dove non puoi stare troppo a lungo fuori dal mercato del lavoro. Senti che allo stesso tempo provi senso di colpa anche solo per averlo pensato, è tua madre e comunque è una persona, anzi una PERSONA, con dei sentimenti e delle emozioni e che ha dato e può ancora dare tanto. Lei mi ha dato la vita, è più che normale prendermi cura di lei, anche se questo può penalizzare un po’ il mio percorso, non è detto che forse invece io ne tragga un qualche insegnamento, primo tra tutti quello dell’umiltà e l’amore.
In famiglia continuavano a preoccuparsi che mamma non ce l’avrebbe fatta quasi andasse a morire, mi dicevano frasi del tipo:
“Muoviti a finire gli studi che non sai quanto durerà ancora la mamma!”
“Meglio che ti cerchi lavoro che mamma non sappiamo quanto resta!”
Questa totale sfiducia nelle capacità di mamma e la loro ignoranza sul problema si ripercuoteva su di me creandomi ulteriori preoccupazioni e ansie.
Non vi nascondo che anche io ho somatizzato un po’ tutto il peso e lo stress di questa situazione, ma a malapena riuscivo a destreggiarmi con lavoretti occasionali e appuntamenti di mamma, studio notturno e cadute e ricadute di mamma che della mia salute potevo occuparmi solo quando riuscivo ad incastrare bene gli appuntamenti nel calendario. Non vi dico che corse!
Ad ogni modo tutti questi ostacoli non ci demotivarono allora, men che meno ora,  e continuiamo tuttora la nostra battaglia contro le istituzioni, contro la malasanità, contro il giudizio e il pregiudizio e l’indifferenza.
Ora posso dire che mamma sta tornando a stare meglio, gradualmente sta riconquistando la sua autonomia, ha anche ripreso nuovamente la patente e stiamo cercando di reinserirla di nuovo a lavorare (ha appena fatto una visita collegiale), ma siamo fiduciose, si sistemerà anche questo!
Le sorelle di mamma ora gioiscono dei progressi di mamma e un paio di loro ha quasi dimenticato di essere state un fattore di stress, talvolta qualcuna la assilla ancora, ma mamma ora ha gli strumenti per fronteggiare i suoi stati d’animo e gestisce meglio le relazioni con loro.
Non esistono parole per descrivere le emozioni che mi suscita vedere mamma stare bene nuovamente, aver costruito alleanza terapeutica con lo psicologo che la segue e che ringrazio profondamente per il suo aiuto e per le informazioni che ci ha fornito per poter predisporre tutta una serie di servizi attorno a mamma.
La guardo e vedo una persona felice e soddisfatta, che non ha più limiti nel pensarsi come persona in grado di essere autonoma anche dovendo a volte ricorrere a degli escamotages creativi per risolvere un problema, una persona che si sente tutelata da me e dal Tribunale dei Diritti del Malato e che ha appreso a non demoralizzarsi più, per quanto la vita sia spesso ardua. La guardo e mi commuovo, di gioia, sento il sollievo che ciò che abbiamo passato per anni, ora non pesa più e anche se non ho trovato molto sostegno e talvolta ho dovuto affrontare anche l’abbandono da parte di persone a me molto care, ora posso dire che questa battaglia l’abbiamo vinta!
Quello che mi premeva dirvi attraverso tutta questa vicenda è che non dovete temere di alzare la testa anche di fronte alle istituzioni o di fronte ad un professionista. Siamo esseri umani e siamo soggetti ad errore, tutti, anche i professionisti e gli esperti.
Non date per scontate le informazioni che vi forniscono, verificatele sempre, a volte per un medico può essere difficile ricordare quali sono gli effetti collaterali di un determinato farmaco o magari di tenere in considerazione che più farmaci possono avere effetti tra loro contrastanti o concomitanti.
Se avete dubbi domandate sempre e sappiate che esistono strutture e persone specializzate nel fornirvi risposte. Non siamo onniscienti è bene avere chiarezza per meglio affrontare la problematica.
Non abbiate paura di chiedere al dottore di parlare in termini più comprensibili, ogni tanto i professionisti si dimenticano che devono scendere dal piedistallo e che devono parlare nel modo più semplice possibile se l’obiettivo è la fiducia del paziente e la collaborazione terapeutica. Non siamo tutti laureati e non tutti conosciamo il gergo tecnico del medico, quindi se può evitare di impressionarci con “paroloni” e magari fornirci informazioni che ci siano più utili e pratiche sarebbe meglio.
Informatevi sul disturbo e sulle possibili alternative terapeutiche non invasive o meno dannose possibili, oggi abbiamo il web che è un bel mezzo per raccogliere informazioni utili, ma vi raccomando di non fermarvi al primo sito che trovate, continuate la ricerca di informazioni fino a che non sarete sufficientemente sicuri che ciò che avete trovato sia una corretta informazione.
Cercate di consultare più specialisti, ognuno avrà da dire la sua, ma 2-3 pareri sono meglio di uno e, forse forse, se tutti quanti dicono uno l’opposto dell’altro, qualcosa che non va c’è e non sempre dipende dal difficile inquadramento del disturbo, a volte sono proprio i dottori a non sapere che stanno facendo.
Non accettate a priori un farmaco se prima non avete verificato sul bugiardino gli effetti collaterali (consultabili anche su internet). Tutti i farmaci hanno effetti collaterali, ma alcuni farmaci sono più dannosi di altri, dovrete domandarvi se ne vale la pena.
Ad esempio, alcuni farmaci provocano incontinenza, calvizie, tremori, e via dicendo…nel caso di mia madre l’alprazolam tra gli effetti molto comuni (1 paziente ogni 10) poteva avere un peggioramento della depressione o l’ansia per cui il farmaco spesso viene fornito, ma non soltanto.
Parlare con altre persone che hanno in qualche modo avuto esperienze simili può farvi accedere a tutta una serie di informazioni che prima non possedevate. Non temete di parlare con altri, per quanto sia delicata la situazione, altrimenti vi privereste di conoscenze preziose.
Vi lascio alcuni link informativi nella speranza che approfondiate voi la ricerca
Mi auguro di esservi stata utile.
Firma VioletPunk piccolo

 

 

EFFETTI COLLATERALI BENZODIAZEPINE:

http://scienzamarcia.altervista.org/psicof3.htm

https://www.facebook.com/notes/delmondo-salvatore/la-fabbrica-di-zombie-benzodiazepine/164022500372949

TRIBUNALE DEI DIRITTI DEL MALATO:
Sappiate che se avete qualche dubbio di malasanità o di cattiva gestione o pratiche poco professionali da parte della Sanità, potete appellarvi al Tribunale dei Diritti del Malato ed è totalmente gratuito, al max vi chiederanno se vorrete fare l’iscrizione NON obbligatoria (5 euro annue).

http://www.cittadinanzattiva.it/corporate/salute/1843-tribunale-per-i-diritti-del-malato.html

DISTURBO DI CONVERSIONE:

http://dottmasroman.blogspot.it/2011/01/appunti-su-personalita-isterica.html

http://www.lilianamatteucci.it/la_nevrosi_isterica.html

http://www.psychiatryonline.it/node/3666 

http://www.disturbipsichici.info/mio%20sito/disturbodiconversione.html

 

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